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  • Cinema e viral marketing secondo Federico Mauro, art director Fandango [INTERVISTA]

    20 Settembre 2011

    Sabato pomeriggio, ore 15

    Navigo sul sito di Federico Mauro, art director di Fandango. Esperto di comunicazione virale, ha ideato e curato le campagne di XY, Habemus Papam, Qualunquemente e L’ultimo terrestre. Qualche giorno fa, ha portato a casa anche il premio come Professionista dell’anno al Premio Web Italia 2011.

    Ok, mi sono convinto. Lo chiamo.

    Federico, a guardare il tuo portfolio mi viene da pensare “finalmente qualcuno che crede nelle strategie virali”. Cosa rara in Italia: stiamo sperimentando ora quello che Hollywood fa da 10 anni. Ancora calma piatta o qualcosa si sta muovendo in questo campo?

    In Italia, le nuove modalità comunicative, le tecniche che legano il prodotto cinematografico al marketing non convenzionale non sono particolarmente diffuse. Anche se a mio avviso, ci sono progetti appetibili, titoli e film dove si potrebbe davvero pensare a qualcosa di particolare, la maggior parte delle strategie legate al cinema segue un iter molto classico e consolidato. Ed è un vero peccato.

    Io personalmente, e noi di Fandango, crediamo molto a questo tipo di impianto strategico. È un ottimo modo per dare ampio respiro ad un film, non legarlo solo all’aspetto promozionale e di lancio, ma costruirgli attorno una serie di elementi in grado di interagire con il pubblico, incuriosirlo e farlo divenire parte integrante di un progetto di comunicazione. Inoltre, è anche un ottimo modo per posizionare il prodotto in ambito commerciale. Si può ottenere, in termini pubblicitari, un valore enorme a un costo a volte irrisorio, o comunque minore rispetto le normali fasi delle campagne adv.

    Io credo, però, che il non convenzionale abbia più una valenza editoriale, di contenuto, oltre che promozionale, grazie la quale è possibile creare suggestioni ed esperienze inedite e interessanti. Questo è il modo, ad esempio, in cui J.J. Abrams usa il virale per i suoi progetti.

    Ti confesso che sarei rimasto deluso se non avessi citato Abrams!

    Sai, il mio approccio è innanzitutto quello di una persona che ama il cinema: non parte dal marketing, ma dal film. Mi riferisco ovviamente ai casi che ormai sono letteratura, come The Blair Witch Project, fino, appunto, ai recenti lavori di Abrams. In questi casi il web non è stato usato con la consapevolezza di viralizzare il prodotto, ma è stato immaginato come una modalità narrativa totalmente nuova.

    Pensiamo a Lost, a Cloverfield, a Super8. Le loro campagne di comunicazione consistono in indizi, elementi disseminati ovunque che tu raccogli e devi elaborare. Non sei parte di un prodotto che conosci, ma di uno che devi scoprire. Sono campagne che hanno un punto di vista e che delineano una dimensione di racconto. Questa è la novità, è un cinema interattivo, multimediale e transmediale. Come ho detto, il non convenzionale non deve limitarsi alla sola diffusione del prodotto, ma, al contrario, deve essere pensato come una nuova modalità della narrazione.

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    È a questo che ti sei ispirato per le campagne virali?

    Assolutamente si, ho sempre cercato di utilizzare il potenziale del virale come una formula narrativa. Ovviamente, questo comporta la necessità di creare un contenuto specifico per la campagna, non più semplicemente di adattare ciò che si è già creato alle esigenze promozionali.

    Per esempio, per XY, l’ultimo lavoro di Sandro Veronesi, è stata ideata una campagna di 6 mesi, un vero e proprio esperimento in cui per la prima volta si utilizzava il marketing virale per promuovere un libro. L’idea, semplicissima, era di creare una campagna di comunicazione riproducendo lo schema narrativo del libro. Il web, per la sua capacità interattiva e diffusiva, è stato uno strumento straordinario a supporto del progetto editoriale: abbiamo disseminato la rete di indizi, coinvolto il pubblico affinché li elaborasse, creato attesa sulla natura stessa del prodotto e offerto contenuti testuali inediti. Come fossero dei veri e propri extra. Intere pagine scritte da Veronesi, usate per le ricerche del libro, ma non inserite nell’edizione finale. Insomma, abbiamo dato vita alla storia di XY come se fosse stato un film e i risultati in termini di following e di copertura mediatica sono stati inaspettati.

    Addirittura, la campagna di marketing ha in un certo senso condizionato il prodotto stesso: la copertina del libro è nata proprio dalle suggestioni create con il sito del film ed i booktrailer teaser. Dal sito alla copertina, e non viceversa.

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    Per L’ultimo terrestre è stato lo stesso? Come è nata la campagna?

    La prima cosa che leggi in qualunque manuale di Sociologia della comunicazione è quello che accade con La Guerra dei Mondi di Orson Welles, un punto di riferimento per chiunque faccia questo mestiere ed anche, nel caso specifico, la nostra fonte di ispirazione. Nel giro di pochi giorni si è creato qualcosa di sorprendente. Il sito sugli Esseri di Luce, lanciato online qualche mese prima, aveva attirato l’attenzione, ma non aveva numeri particolarmente significativi. Era un prodotto fake che poteva, nel caso, interessare ufologi o gente appassionata e che serviva per l’aggancio con l’effetto-realtà.

    La finta notizia del Tg3, invece, ha raccolto in un solo giorno 500mila views, è stata ripresa dai principali giornali nazionali (Aldo Grasso ne ha scritto in prima pagina) e ha persino valicato i confini nazionali, grazie ad un articolo del The Guardian sulla campagna virale.

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    La Fandango, per i suoi ultimi prodotti, ha puntato molto sul virale. Ci state prendendo gusto o è una strategia ben precisa?

    Dipende dal film, non è una strategia a prescindere. Non usiamo il non convenzionale come un modello: diverrebbe, per definizione, convenzionale e non credo funzionerebbe. Credo che invece sia imprescindibile un legame con il tipo di prodotto. Il virale non lo crei ad hoc, ma è un qualcosa che il progetto deve avere nelle sue nervature, che si deve percepire e che poi va costruito, pianificato e coordinato. A questo proposito, ti anticipo che abbiamo almeno altri due progetti che usciranno a breve e che, a mio avviso, possono avere le chiavi giuste per un approccio di questo tipo.

    Aggiungo un’altra cosa. Proprio per questa sua intrinseca capacità di feedback, di fare comunità, anche per l’uso delle piattaforme social oriented, il non convenzionale ci è servito anche per assumere un rapporto diverso con i tanti utenti che seguono i nostri lavori. Ad esempio, i trailer, così come i manifesti, le foto di scena e le informazioni relative alle nostre produzioni ed attività, vengono pubblicati in esclusiva sul nostro sito e sulla nostra pagina ufficiale Facebook prima di diffonderle a mezzo stampa o su altre piattaforme. A dimostrazione di un rapporto che intendiamo assumere come privilegiato con il nostro pubblico. Su questo, devo dire che la sensibilità della Fandango e di Domenico Procacci è davvero enorme. E frutto di scelte consapevoli che vanno nella direzione di una reale condivisione dei propri lavori.

    L’altro elemento significativo è che non ci rivolgiamo ad agenzie di comunicazione esterne. La Fandango gestisce internamente (con la divisione Marketing e Comunicazione) tutto ciò che riguarda la promozione, il marketing e la direzione artistica dei libri e dei film. Questa è una cosa abbastanza atipica nel panorama italiano, ma credo sia ciò a permetterci di essere sempre a stretto contatto con il lavoro di produzione, di seguirlo in ogni sua fase e sviluppo: comunicazione, marketing e creatività diventano un aspetto integrato della produzione, non qualcosa che attiene solo alla fase di lancio o distribuzione. Ecco, questa è una cosa che consente di entrare davvero nel cuore di un film o di un libro.

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    Qual è il vantaggio in termini di comunicazione di una strategia virale e il valore aggiunto (se c’è un valore aggiunto) per il cinema italiano?

    Credo che ci siano due valori fondamentali: innanzitutto, la possibilità che ha la campagna virale di funzionare indipendentemente dagli asset principali dei meccanismi di produzione. Può essere vincente sia per un film molto riconosciuto, con un grande cast, ma anche per una piccola produzione o un prodotto indipendente. D’altronde, è implicito che nel marketing virale ci sia la totale assenza della certezza di successo. Il tutto è anche molto fortuito, spesso casuale, ma in generale la comunicazione virale funziona se c’è un interesse concreto a sviluppare la campagna. Come ho già detto, viralizzare non è un aspetto meramente medotologico, non significa distribuire il materiale già prodotto, ma creare e diffondere nuovi contenuti, intercettando nuove suggestioni e stimoli.

    Questo è il secondo aspetto da considerare: la trasversalità, la possibilità di unire differenti mezzi, capacità e modalità comunicative. Il sito del Partito du Pilo e degli Esseri di Luce sono stati fondamentali per veicolare i nuovi contenuti prodotti. Ovviamente, per questo è necessario l’intervento dell’autore, come Moretti [solitamente poco incline all’uso delle nuove tecnologie, nda] che per la strategia di Habemus Papam, realizza un film, lo trasforma in un gioco e lo pubblica integralmente online, gratis; o Veronesi che scrive pagine inedite e le regala agli utenti. È così che si riesce a far vivere il film prima che esca, e per lo spettatore appassionato, come me, è una cosa fantastica! Riuscire a vedere le scene inedite, ascoltare la colonna sonora, avere anteprime. Si riesce a raccogliere un pubblico attento, che ti segue e si affeziona.

    È interessante notare che le campagne unconventional in Italia vengano realizzate perlopiù dalle case di produzioni minori o indipendenti. C’è una maggiore apertura verso le nuove forme di comunicazione o le indie non soffrono l’ansia da prestazione al box-office?

    È una questione di mentalità e di come sono strutturate le società di produzione. Nel caso delle majors, il marketing è soprattutto legato all’aspetto distributivo, a campagne adv o affissione, spot tv e presenza nelle sale. Inoltre, considera che spesso gli aspetti inerenti la comunicazione sono curati da agenzie esterne. È ovvio che l’agenzia interviene solo in una fase successiva, quando il prodotto è già confezionato, limitandosi, quindi, ad adattare la strategia di comunicazione a quanto realizzato.

    La logica è diversa quando sei parte integrante del progetto, ne segui la realizzazione, le riprese e cominci a mettere in relazione tra loro gli elementi. Bisognerebbe entrare nell’ottica per cui la comunicazione non è solo un momento di promozione, ma di creatività e costruzione che segue ed accompagna l’intero film. Poi, certamente, è fondamentale la fase di lancio.

    Ovviamente, mi chiedo perché le majors italiane, avendo anche molti mezzi a disposizione, non attuino strategie di questo tipo. Non so perché, forse non ci credono o forse per loro gli impianti convenzionali portano comunque al risultato sperato. E a loro va bene così. Forse.

    A proposito dello scenario italiano, durante il Premio web Italia, Michele Ficara Manganelli, Presidente di Assodigitale, l’Associazione italiana delle industrie digitali, ha affermato: “Correte all’estero. L’Italia non è un paese per startup digitali. Investire qui è inutile”. A rincarare la dose, Maurizio Sala, fondatore di TestaWeb, l’agency multimediale di Armando Testa, afferma: “A mia figlia di 6 anni dico sempre: non devi nulla a questo Paese. Vai lontana da qui”. Insomma, parole dure e crisi economica. Che idea ti sei fatto a proposito?

    Conservando inalterata la stima per Manganelli e Sala e per la loro professionalità, non sono d’accordo con le loro riflessioni. Oltretutto, mi sembra strano sentir dire questo da chi è restato in Italia e ci lavora ancora. Se dovessimo riconoscere che andar via dall’Italia sia la giusta conclusione, sarebbe la definitiva sconfitta di questo Paese. Gli italiani sono ricercati ovunque nel mondo. Che non funzioni quasi nulla, che sia difficile fare sistema, fare impresa, che manchi una classe dirigente all’altezza di un Paese moderno e avanzato…questo purtroppo è vero; ma bisogna sentirsi legati al proprio Paese, al modello culturale e sociale su cui siamo cresciuti. Finiamola con questa demagogia che vede il successo o la realizzazione nel semplice “andare via e fare tanti soldi”. Non è una prospettiva che mi alletta, né che accetto. Probabilmente perché non mi hanno insegnato questo. E ne sono ben contento. Andarsene è la cosa più facile. La vera sfida è restare per fare il possibile.

    Comunque, non voglio e non posso dispensare consigli. Mi ritengo una persona fortunata e per me, che vengo dalla provincia di Avellino, ogni traguardo raggiunto è ancor più un motivo di sincera soddisfazione. Ed al momento, ho il privilegio di vivere facendo quello che mi piace fare, ed è questa la cosa a cui chiunque dovrebbe aspirare. D’altronde, lo diceva anche Steve Jobs. Manganelli e Sala non me ne vorranno.

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