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  • Come rendere davvero inclusive le strategie di employer branding

    11 Ottobre 2023

    La Diversity, Equity & Inclusion (DEI) è un concetto che oramai ha una presenza diffusa a livello mediatico ma soprattutto nei contesti delle grandi realtà aziendali.

    Fa parte di tematiche che stanno guadagnando sempre più importanza nel contesto lavorativo, ma spesso sono ancora poco comprese o sottostimate dalle imprese.

    Il diversity management ha iniziato il suo percorso già alla fine degli anni ’80 in USA, un Paese che ha nel suo DNA l’eterogeneità culturale e la convivenza di molteplici differenze, con l’obiettivo di valorizzare i lavoratori provenienti da culture, etnie, religioni e background differenti.

    Da allora, le aziende hanno iniziato a confrontarsi con la sfida di come motivare e gestire una popolazione diversificata, nonché di come attrarre e trattenere i potenziali più promettenti rispetto a gruppi così variegati.

    “Cliff Notes” di Diversity, Equity ed Inclusion

    A seguito dei profondi mutamenti sociali e politici avvenuti negli ultimi decenni, le grandi aziende stanno effettivamente adottando misure per incrementare la DEI, comprendendo una vasta gamma di dimensioni, di strategie di comunicazione culturale e di politiche interne che fanno riferimento alla valorizzazione delle “diversità” (sebbene personalmente preferisca la traduzione italiana in “differenze”) sul posto di lavoro, considerando le caratteristiche dell’età, del genere, dell’etnia, della religione, della disabilità, dell’orientamento sessuale, dell’istruzione e delle origini geografiche o culturali.

    Il termine ruota intorno al concetto che ogni dipendente porta in dote pensieri, convinzioni e idee uniche, contribuendo a creare una ricchezza di punti di vista all’interno di un’organizzazione.

    A questo proposito, il modello “4 Layers of Diversity” di Lee Gardenswartz e Anita Rowe offre un metodo ampiamente adottato negli ultimi anni per identificare le molteplici dimensioni della diversità nelle organizzazioni.

    Questo modello è approssimativamente allineato con le categorie e le minoranze tutelate solitamente dalla legge, ma è importante sottolineare che le dimensioni della diversità possono variare in base al contesto e all’evoluzione nel tempo.

    In un contesto come quello italiano, spesso polarizzato solo su alcune tipologie di diversity, non si sta facendo ancora qualcosa di veramente concreto ad esempio sul piano dell’età, così come nel caso dello status economico-sociale di provenienza, del background di istruzione o degli ambiti che fanno riferimento alle dimensioni più organizzative (ambito di lavoro, stato manageriale, sede di lavoro, livelli funzionali, seniority, etc).

    L’inclusione, d’altra parte, si riferisce agli sforzi organizzativi volti a garantire che tutti i dipendenti si sentano accolti e trattati senza discriminazioni.

    Una cultura organizzativa inclusiva fa sentire le persone rispettate e apprezzate per ciò che sono come individui o gruppi.

    Ed è lapalissiano che dipendenti che si sentano accolti siano anche più motivati e impegnati nel loro lavoro.

    Le politiche di inclusione pertanto dovrebbero concentrarsi sempre su come far sentire ogni persona importante per il successo dell’azienda indipendentemente dalle unicità che porta in dote.

    La mancanza di inclusione può invece portare a impulsi di isolamento e a contrasti espliciti o a comportamenti passivo-aggressivi tra i dipendenti, limitando l’apertura e il benessere nel condividere le proprie esperienze personali.

    strategie inclusive di employer branding

    È importante sottolineare che diversità, equità e inclusione sono concetti interconnessi, e il loro pieno impatto si manifesta quando vengono combinati in modo efficace.

    L’equità, in particolare, riguarda le opportunità e il trattamento obiettivo di tutte le persone, tenendo conto delle circostanze individuali, in modo che le opportunità e i risultati sul lavoro non siano influenzati dalla loro identità.

    In un mondo del lavoro moderno, è fondamentale che i datori di lavoro riconoscano i vantaggi derivanti da queste differenze e sviluppino una cultura aziendale che rispetti e valorizzi ogni individuo.

    Questo, infatti, non è non solo migliora l’esperienza dei dipendenti, ma ha anche un impatto positivo sulle prestazioni aziendali.

    Nonostante questo, i progressi in molti ambiti rimangono spesso modesti. Gli sforzi per promuovere la diversità e l’inclusione sul luogo di lavoro talvolta risultano infruttuosi. Ma perché?

    La difficile sfida dell’employer branding inclusivo

    Secondo un articolo di Harvard Business Review, le imprese si trovano spesso davanti alla difficile sfida di comprendere quali strategie abbiano effettivamente successo, e in questa prospettiva, vengono considerate quelle maggiormente proficue: fissare obiettivi concreti, raccogliere e analizzare i dati sulla percezione delle diversità in azienda, individuare dei responsabili del diversity management, modificare le modalità di segnalazione delle discriminazioni, attivare programmi di supporto per i dipendenti discriminati, assicurare che le tecnologie utilizzate nella selezione o nei career program non siano intrinsecamente distorte da bias, coinvolgere fin dall’inizio dei processi di trasformazione culturale i manager e gli altri leader nei programmi di DEI.

    Ma anche e soprattutto evitare il tokenismo, che consiste nell’adottare soltanto sforzi superficiali o simbolici per promuovere l’inclusione dei membri di gruppi minoritari, spesso con scopo di dare l’apparenza di avere una cultura inclusiva sul piano della comunicazione più istituzionale e sul mercato.

    Le ricerche dimostrano chiaramente che le aziende che promuovono la diversità, l’equità e l’inclusione ottengono vantaggi significativi in più ambiti; la diversità sul posto di lavoro è infatti cruciale per stimolare l’innovazione e la creatività, poiché le diverse prospettive portano a idee più ampie e visioni più ricche.

    Le organizzazioni con una maggiore diversità sono anche più redditizie, secondo McKinsey, e godono di una crescita dei ricavi superiore e di un Net Promoter Score (indicatore di soddisfazione del cliente) più elevato. Inoltre, il diversity management è associato a un aumento delle entrate del 19% secondo Boston Consulting Group, mentre il 74% dei Millennial per Deloitte ritiene che le organizzazioni che promuovono l’inclusione siano più innovative.

    Per riassumere, le aziende che abbracciano e mettono in pratica autenticamente la cultura della DEI, godono di vantaggi tangibili in termini di performance finanziaria, innovazione, attrazione e fidelizzazione del talento, coinvolgimento dei dipendenti e reputazione del brand.

    Reputazione di inclusività dell’employer brand e importanza dell’Employer Branding Inclusivo

    Se la reputazione di un brand migliora attraverso l’investimento sulle politiche di DEI, anche ciò che riguarda l’Employer Brand non può che essere rilevante soprattutto in termini di attrattività per le nuove generazioni e i futuri employee, sempre molto più sensibili ai temi dei diritti e dell’inclusione, in particolar modo riguardo all’età.

    I dati Glassdoor di qualche tempo fa rimarcavano che il 57% dei dipendenti pensa che la propria organizzazione possa migliorare nell’aumentare le politiche di diversity nella propria forza lavoro, un indicatore rilevante per quanto riguarda banalmente il word of mouth che può generare la forza lavoro interna proprio in termini di employer branding.

    Sempre di più oggi non si tratta solo di attirare i migliori talenti, ma anche di creare un ambiente lavorativo inclusivo che promuova la diversità e l’equità concretamente.

    In questi termini, l’employer branding inclusivo diventa la chiave per costruire una forza lavoro eterogenea e innovativa, migliorare l’efficacia di attrazione di nuovi employee, rispettando di Diversity, Equity & Inclusion (DEI), manifestando e raccontando in maniera genuina e naturale il proprio purpose.

    Il primo passo da fare è sicuramente chiedersi quanto sia inclusivo ed equo il ciclo di vita dei propri dipendenti.

    Come abbiamo rappresentato la diversity riguarda la “rappresentanza” dell’eterogeneità nella popolazione aziendale, ma l’inclusione riguarda molto di più, vale a dire fare un focus sull’intero ciclo di vita dei dipendenti.

    Provando a declinare, ad esempio, il tema dell’età, sarà importante chiedersi come cambiano le statistiche demografiche man mano che i candidati passano dai colloqui alle offerte alle nuove assunzioni, oppure in che modo i tassi di promozione vengono confrontati tra diversi gruppi demografici o tra dati demografici per dipartimento.

    Nell’ultimo periodo è stata formalizzato il primo standard di qualità sulla Diversity, la norma ISO 30415:2021 – Human Resource Management Diversity and Inclusion, che definisce le linee guida per un framework D&I.

    Negli ultimi anni, infatti, la capacità inclusiva delle aziende è sotto i riflettori per motivi etici, organizzativi e di business e questa norma rappresenta di fatto una guida per l’efficace applicazione dei principi di DEI nei processi aziendali, negli organi di governo e più in generale, per tutti gli stakeholder di riferimento, introducendo un approccio improntato su un vero e proprio sistema di gestione che mira al miglioramento continuo.

    L’azienda poi dovrebbe promuovere continuamente una cultura di inclusione in cui i dipendenti di tutte le età si sentano valorizzati e rispettati.

    Ciò può essere fatto attraverso programmi di formazione sulla diversità, workshop sull’uguaglianza e la promozione di discussioni aperte su questi temi.

    Ma oltre allo stato dell’arte del proprio workplace e della vita all’interno dell’organizzazione, proviamo ad esplorare l’importanza dell’employer branding inclusivo e le strategie che le aziende potrebbero adottare per rendere i processi di attraction, selezione e onboarding rispettosi delle differenze di età (e non solo).

    Strategie per un Employer Branding “Age Inclusive”

    Riformare l’employer branding aziendale verso processi e cultura inclusiva significa analizzare il percorso che ogni nuovo employee percorre in tutta la candidate experience.

    La prima strategia fondamentale è definire chiaramente i valori e le misure di Diversity, Equity & Inclusion dell’azienda.

    Questi principi dovrebbero essere incorporati nella cultura aziendale e resi visibili per i candidati fin dalle prime interazioni con l’azienda.

    Rafforzare la consapevolezza e le pratiche di inclusione generazionale all’interno delle organizzazioni è oggi un catalizzatore importante per rendere più fluida l’apertura mentale e l’approccio a tutte le diversità, sia perché il tema dell’età subisce (almeno in Italia) una polarizzazione meno radicata nella storia culturale del Paese rispetto ai temi di genere o di etnia, ma anche perché il tema dell’ageismo è comunque una “diversità mobile” a cui chiunque è e può essere soggetto nell’arco temporale della propria vita.

    Rappresentare una forza lavoro e una cultura aziendale diversificata nelle età dei propri dipendenti significa anche trasmettere indirettamente che gli approcci valoriali, di comunicazione, di approccio all’innovazione e alla tecnologia, così come quelli gerarchici e di gestione del potere organizzativo sono mescolati e armonizzati tra loro, includendo altresì focus e prospettive che toccano trasversalmente anche i temi identitari più specifici.

    In questo articolo ci soffermiamo su alcune strategie “age inclusive” poiché permettono di ragionare efficacemente anche su tutte le altre diversità che riguardano l’attuazione di politiche DEI in ambito employer branding.

    Attrarre candidati di tutte le età

    Nelle strategie di attraction, è essenziale che le aziende siano consapevoli dell’importanza di attrarre candidati di tutte le età e di rivolgere gli sforzi comunicativi dell’employer brand non solo al pubblico giovanile, che è solitamente il target preferenziale quando si tratta di attivare nuove assunzioni nella forza lavoro aziendale.

    Il contesto del mercato del lavoro soffre forse da sempre di un “giovanilismo” che accentua l’attenzione verso le forze di nuova generazione e, anche dal punto di vista normativo e di contrattazione collettiva non considera forme di incentivo alle assunzioni calibrate su un approccio anche multigenerazionale.

    È necessario, pertanto, assicurarsi che le opportunità lavorative siano accessibili a tutti, indipendentemente dall’anno di nascita, ma che anche il linguaggio utilizzato nelle offerte di lavoro e nelle comunicazioni aziendali sia inclusivo e non contenere riferimenti discriminatori all’età.

    Le immagini e le rappresentazioni visive dovrebbero riflettere la diversità generazionale all’interno dell’azienda, e in termini più ampi lavorare sull’utilizzo di immagini consapevoli vuol dire concentrarsi sulla rappresentazione della diversity della propria forza lavoro in modo che rispecchi veramente la realtà (evitando tokenismi), così come ci si adopera affinché il design UX e UI del candidate journey sia responsive e attento, ad esempio, alle diverse abilità.

    employer branding intergenerazionale

    Raccogliere feedback da dipendenti e candidati di età diverse, inoltre, può aiutare a identificare le aree di miglioramento; il presupposto è l’azienda dovrebbe essere sempre aperta a ricevere critiche costruttive e prendere misure correttive per apportare tutte le modifiche che si rendono necessarie.

    Le aziende, inoltre, dovrebbero comunicare in modo chiaro il loro impegno per la diversità e l’inclusione, mettendo in evidenza storie di successo di dipendenti di diverse età.

    Ciò può essere fatto attraverso il sito career aziendale, i social media e gli altri canali di comunicazione, ma l’importante è che vengano diffuse con chiarezza e coerenza le iniziative DEI, raccontando l’impatto sociale dell’aziende anche oltre il luogo di lavoro.

    Le pratiche efficaci della DEI possono avere un impatto positivo sui dipendenti, ma in molti casi, questi vantaggi e le “esternalità positive” si estendono oltre i limiti della forza lavoro verso ulteriori stakeholder come amici, familiari e la comunità più ampia, territoriale o settoriale.

    Nel mondo del marketing o della comunicazione istituzionale oggi è sempre più diffuso mescolare gli ingredienti della sostenibilità e dell’inclusione con gli accostamenti relativi ad un prodotto o a un servizio.

    Ma non sempre è definita l’importanza, non scontata, di facilitare l’espressione di differenti punti di vista all’interno di un racconto collettivo come quello aziendale: dai leader e dai fondatori che guidano l’organizzazione, ai dipendenti che ne contribuiscono la crescita e a tutti gli altri stakeholder che entrano in relazione con l’eco-sistema azienda.

    Parlare di sostenibilità e inclusione è sempre più delicato perché le persone si fidano delle persone (e sempre meno dei brand), e non funzionano più le narrazioni fantasmagoriche, gli effetti speciali o le autodichiarazioni del tipo “siamo leader nell’ambito dell’inclusività”.

    Ogni comunicazione deve allora basarsi su risultati concreti e misurabili a cui dare in più dettagli e sfumature che rendono i fatti più “caldi”, soprattutto se raccontati dai diretti interessati.

    Non dimentichiamo allora che per fare employer branding inclusivo è necessario anche un approccio inclusivo allo Storytelling del lavoro in azienda, che comprenda:

    • fatti, dati e risultati reali di rappresentazione del contesto lavorativo come realmente integrato nelle differenze;
    • il coinvolgimento in prima persona dei leader dell’organizzazione per dare credibilità e consistenza al flusso comunicativo fisico o digitale in cui il board management è consapevole e si assume la responsabilità del messaggio di inclusione;
    • l’ingaggio dei dipendenti e degli stakeholder (famiglie, istituzioni, terzo settore) che entrano in contatto con l’azienda come voci narranti del racconto condiviso.

    Tutto lo storytelling design di inclusione deve poi essere elaborato con semplicità, con la scelta consapevole di essere comprensibili da tutte e da tutti e di dire solo le cose importanti per trasmettere il senso; con autenticità che dettagli anche gli aspetti difficoltosi o le criticità che sono state superate o sono in corso di superamento; ma anche immediatezza nella scelta dei canali di comunicazione e di energia positiva che può essere infusa in chi riceve, ascolta o legge quella narrazione sulle persone che compongono un luogo di lavoro.

    Eliminare le discriminazioni legate all’età nei processi di recruiting e selezione

    Proseguendo nel viaggio della candidate experience, la configurazione dell’inclusione si può attuare anche nell’ “imbuto” della selezione aziendale.

    Nella fase di selezione, infatti, le aziende dovrebbero adottare misure per eliminare qualsiasi forma di disparità.

    Già a partire dalla revisione e all’adattamento delle politiche degli strumenti di selezione che potrebbero essere riviste e disposte per eliminare qualsiasi forma di discriminazione, magari partendo proprio da quelle legate all’età.

    Ad esempio, potrebbe essere utile considerare l’esperienza come una risorsa preziosa indipendentemente dall’anno di nascita (o di laurea), dando pari opportunità sia ai giovani talenti, sia agli esperti con una carriera più lunga o junior professional che hanno già fatto delle prime esperienze del mercato del lavoro.

    Il job posting non può che essere focalizzato allora sul livello delle competenze, e non sulla seniority o l’età massima richiesta, evitando ovviamente anche qualsiasi riferimento a temi identitari, stereotipi e pregiudizi di genere, così come elementi di residenza e domicilio che non devono mai risultare discriminanti.

    Il 24 aprile del 2023 il Consiglio Europeo ha adottato nuove norme per combattere la discriminazione retributiva e contribuire a colmare il divario retributivo di genere nell’UE.

    Ai sensi della direttiva sulla trasparenza retributiva, le imprese dell’UE saranno tenute a fornire informazioni su quanto corrispondono alle donne e agli uomini per un lavoro di pari valore e a intervenire, se il divario retributivo di genere supera il 5%.

    Nei prossimi anni i datori di lavoro avranno l’obbligo di fornire alle persone in cerca di lavoro informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla fascia retributiva dei posti vacanti pubblicati, riportandole nel relativo avviso di posto vacante o comunicandole prima del colloquio di lavoro.

    In un recente sondaggio condotto da LinkedIn, il 91% degli intervistati con sede negli USA ha affermato che l’inclusione delle fasce salariali in un posto di lavoro influenzerebbe la loro decisione di candidarsi, in maniera coerente tra settori e anzianità dei lavoratori.

    Allora, proprio a partire da questi principi di pay transparency, sarà importante armonizzare coerentemente anche i prospetti salariali che hanno a che vedere con l’età, rappresentando in maniera trasparente quanto i percorsi di carriera in un luogo di lavoro sono legati unicamente agli anni di “anzianità” e quanto invece si focalizzano sulla competenza indipendentemente dagli anni di nascita, coerentemente con i messaggi di inclusione generazionale che vengono rappresentati nelle campagne di employer branding.

    Sul piano della selezione, inoltre rimarrà sempre importante utilizzare una varietà di canali di recruiting online e offline per raggiungere candidati di diverse generazioni, fornire una formazione adeguata ai selezionatori per sensibilizzarli sulla diversity e sull’importanza di evitare pregiudizi durante il processo di selezione.

    Onboarding: Accoglienza e Integrazione Inclusiva

    Nelle strategie di employer branding legate alla candidate experience non dobbiamo dimenticare la fase di onboarding, come momento cruciale in cui l’azienda dovrebbe concentrarsi su un’accoglienza e un’integrazione inclusiva per garantire che i nuovi dipendenti di tutte le età si sentano parte della cultura aziendale.

    E che soprattutto si dimostri coerente con i messaggi di attraction che sono stati diffusi sul mercato per non generare disillusioni o discrepanze reali tra il dichiarato e il contesto reale.

    Inoltre, offrire un programma di accoglienza ben strutturato che aiuti i nuovi dipendenti a comprendere la cultura aziendale, le politiche e i valori dell’azienda attraverso la conoscenza di colleghe e colleghi di seniority diversificate, così come creare programmi di mentorship intergenerazionale che mettano in contatto dipendenti di diverse generazioni può favorire la condivisione di conoscenze e competenze tra i più giovani e i più anziani, promuovendo una cultura di apprendimento continuo in linea con le politiche di inclusione che abbiamo illustrato.

    Anche il processo di onboarding ha bisogno di feedback regolare da parte dei nuovi assunti e dei veterani per poter monitorare e valutare l’efficacia del processo dal punto di vista dell’inclusione dell’età e non solo.

    L’ “Inclusive Employee Branding” nel futuro delle strategie di descrizione, attrazione e retention delle persone in azienda

    L’employer branding declinato verso l’inclusione è sempre più fondamentale per la creazione di un ambiente di lavoro diversificato, equo e inclusivo.

    Le aziende che investono nella promozione della diversità, in particolar modo quella legata all’età, non solo migliorano la loro reputazione, ma possono anche beneficiare di una maggiore innovazione sociale, migliore produttività e soddisfazione dei dipendenti.

    È cruciale per le aziende abbracciare le differenze, generazionali e non, in tutte le fasi del ciclo di vita del dipendente, dall’attraction in poi.

    In un mondo sempre più consapevole del potere della DEI, le aziende che adottano un approccio inclusivo non solo attireranno e manterranno potenziali, competenze e abilità di tutte le età, ma saranno anche meglio posizionate per affrontare le sfide demografiche future e implementare una visione di lungo termine.

    Oggi non possiamo più aspettare ed è necessario iniziare a riconoscere i privilegi di alcune categorie sociali rispetto ad altre, ma anche soprattutto volere davvero il cambiamento.

    “Diversity happens, Inclusion is a choice” (Harjeet Khanduja)