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  • Digital divide: perché la scarsa digitalizzazione non è legata all’età

    Giovani e adulti insieme per un nuovo mindset tecnologico 

    8 Giugno 2021

    Il dibattito e l’attenzione mediatica sul tema delle “Nuove Generazioni” si sono palesati dall’innesco portato dalla velocissima evoluzione tecnologica degli ultimi anni che ha posto l’attenzione su come il “nativo digitale” si sia trovato ad affrontare l’apprendimento della realtà in maniera totalmente differente, conseguentemente a comportamenti sociali e relazioni fortemente modificati rispetto all’approccio più “analogico” delle generazioni precedenti. Sembra incredibile come il termine “digitale” (dall’inglese “cifra”, in riferimento a un sistema a base dieci, come le dita delle due mani) abbia la sua radice etimologica nel latino “dito”, quindi qualcosa che dovremmo percepire con tangibilità, a fronte invece di un significato che nel virtuale perde il suo senso di contatto fisico, se non appunto per mezzo delle dita che posiamo sugli schermi dei nostri dispositivi.

    Giovani e adulti insieme per un nuovo mindset tecnologico

    Parlare oggi di digital divide, significa sottolineare non solo l’accesso alla connessione e ai device tecnologici, ma anche le differenze di valori, modelli cognitivi, stili di relazione e modelli di apprendimento tra “nativi” e “immigrati” digitali, rappresentati dalle generazioni precedenti (in particolare Boomers e X-Gen). Sebbene queste diversità tra generazioni siano sempre esistite, oggi sono più rilevanti per la velocità esponenziale del progresso tecnologico (la digital transformation) e l’allungamento della vita media. Quando l’attenzione si pone sugli attori che partecipano attivamente o meno all’evoluzione delle tecnologie e alla loro comprensione, il pensiero non può che andare verso la storica definizione di Apocalittici e Integrati di Umberto Eco: ognuno di noi può riconoscere quale sia il comportamento istintivo che abbiamo nei confronti di una nuova tecnologia che al suo avvento modifica usi, costumi e quotidianità consolidate, soprattutto in questo periodo storico dove la ricerca e l’innovazione ci avvicinano continuamente a nuovi manufatti o esperienze. Declinando il concetto sul piano generazionale (e fatte le dovute eccezioni – non tutti i giovani sono “early adopters”, e non tutti gli anziani sono “laggards”, riprendendo il modello di diffusione dell’innovazione di Everett Rogers) è abbastanza condiviso nell’immaginario collettivo che nei confronti delle nuove tecnologie si possa attribuire agli adulti/senior un sentimento in prima battuta tendenzialmente più critico di fronte a nuovi strumenti digitali, di contro ad uno più aperto e “naturale” da parte della gioventù. LEGGI ANCHE: Migrazioni social: la fuga dei giovani in rete generazione dopo generazione

    Digital skills ibride tra abilità e maturità digitale

    Il tema del digitale ha sommerso letteralmente le agende manageriali e del business da diversi anni (il termine Industry 4.0 è stato coniato nel 2013!) e ancora di più ha reso improcrastinabile la trasformazione digitale di prodotti, processi e persone con l’acceleramento “fotonico” innescato dalla pandemia. Per conoscere quali siano gli ambiti su cui giovani e adulti possano allenarsi o scambiare conoscenza, o buone pratiche, per migliorare il livello di padronanza della tecnologia come mezzo di lavoro e di comunicazione interpersonale, è forse utile fare chiarezza sul tema delle competenze digitali. La difficoltà, in questo caso, è orientarsi nei tanti framework che hanno provato a destreggiarsi sul tema delle skills utili per essere al passo con la trasformazione tecnologica e, soprattutto, con l’informazione e le relazioni esercitate con gli strumenti del mondo virtuale. E il terreno è non poco tortuoso: dal DigComp oggi nella sua versione 2.1 e ai paradigmi di rilevazione del DESI (Digital Economy and Society Index), della Commissione Europea, alla Web Literacy di Mozilla, alle numerose classificazioni disegnate dalle società di consulenza con i cosiddetti “Digital Maturity Models”, dalle associazioni che fanno educazione digitale con i loro modelli “open source” e così via. Sicuramente, le vicende di attualità dell’home/remote working hanno portato maggiore consapevolezza sul fatto che la trasformazione digitale non è rappresentata solamente dall’adozione di strumenti o piattaforme più potenti o, banalmente, dalla conoscenza degli aspetti tecnici di un software, o di un nuovo device digitale, bensì dalle capacità di mostrare un mindset aperto e duttile all’arrivo di un nuovo mezzo tecnologico, e contemporaneamente quella di adattarlo al contesto e all’uso che se ne deve fare. Su questo è estremamente rilevante la distinzione sistematizzata tempo fa da Francesco Derchi e Giulio Xhaet tra maturità digitale e abilità digitale. Nella prima, si tratta di nutrire la consapevolezza e il cambio di mindset:
    • conoscere e riconoscere i contesti informativi e saperli interpretare;
    • identificare le peculiarità di un contenuto digitale (e di uno reale);
    • capire le implicazioni che hanno i dati nel lavoro e nel business;
    • saper esercitare l’ascolto e la relazione positiva anche online;
    • avere una mentalità collaborativa;
    • conoscere le basi della cybersecurity;
    • interiorizzare gli aspetti del benessere digitale e i rischi dell’esposizione alla iper-connessione.
    Nella seconda, si tratta di declinare in forma pratica queste consapevolezze o queste attitudini:
    • organizzare le informazioni e saperle selezionare (fake news e debunking);
    • sviluppare contenuti in forme cross-mediali;
    • leggere i dati con strumenti specifici di analisi;
    • interagire e collaborare efficacemente e con empatia online;
    • navigare e interagire sui social media in sicurezza;
    • praticare in maniera consapevole il digital detox.
    Il cambio di mentalità può essere ovviamente differente a livello generazionale, sebbene queste abilità siano valide per tutte le età che si rapportano al mezzo digitale. Per un giovane, potrebbe significare il raggiungimento di un maggior senso critico sugli strumenti che (in teoria o nell’immaginario collettivo) sa già usare con naturalezza, mentre per un adulto significherà integrare il critical thinking acquisito con l’esperienza di vita con la padronanza pratica delle app, dei tools e degli strumenti correlati (o semplicemente averne coscienza e viverli con meno resistenza a priori, oppure addentrarvisi con pazienza e proattività di apprendimento). Quante di queste cose potrebbero essere un terreno di scambio reciproco intergenerazionale? Soprattutto i temi del digital wellbeing e dell’approccio “analogico” e critico all’information overload dei social media potrebbero diventare il nuovo scenario di hybrid digital skill, dove il digitale e il tecnologico potrà essere sempre più inteso come strumento e non come fine, ma soprattutto ben equilibrato con la relazione umana e della vita reale. Solitamente. in letteratura la relazione che l’individuo ha con la tecnologia si identifica o come “determinismo tecnologico”, dove ogni mutamento sociale sarebbe determinato da un cambiamento nei modi di comunicare connessi alle tecnologie, più che nei contenuti stessi, oppure del “costruzionismo sociale della tecnologia”, nel quale la tecnologia è conseguenza dei processi sociali. Probabilmente, la lente più opportuna da utilizzare è una formula intermedia e “ibrida” di co-produzione, dove non è la società a plasmare le tecnologie, e non sono le tecnologie a determinare la società: piuttosto società e tecnologie si influenzano e modificano a vicenda, in un processo di coevoluzione. Così come l’incrocio di codici e saperi e di interdisciplinarietà è il valore aggiunto delle nuove skill del futuro – anche rispetto agli scenari timorosi dell’algocrazia e del dominio delle Intelligenze Artificiali, immaginare la commistione di approcci e mindset culturali intergenerazionali può risultare la soluzione maggiormente strategica oltre che più “sana”.

    Gli antidoti generazionali alla Hustle Culture e alla tossicità digitale

    Il significato del termine “Analogico”, oggi acquisisce nel parlare comune un’accezione demodé, oppure sembra fare riferimento a qualcosa di lento e malfunzionante: in realtà la sua definizione sta per qualcosa di “non numerico, o non digitale, detto di strumento di misurazione che fornisce misure in maniera non direttamente numerica e anche qualifica di tali misure” (Treccani). Quindi un principio qualitativo opposto ad uno espressamente numerico – magari binario. Se ci viene facile affibbiare il termine “analogico” alle generazioni più adulte, perpetrando un po’ di ageismo, forse dovremmo fare i conti con lo scenario che ci circonda, dove “veloce” è sinonimo di efficiente, di performante e di positivo. Viviamo l’era delle distrazioni digitali e della società del “tutto e subito”: secondo il report “Digital 2021: Global Overview Report”, nonostante i cambiamenti significativi nei comportamenti digitali dovuti al COVID-19, le persone dicono che trascorrono circa la stessa quantità di tempo ogni giorno sui social media oggi come hanno fatto in questo periodo l’anno scorso. Tuttavia, i dati GWI mostrano che la media giornaliera è aumentata di oltre mezz’ora negli ultimi 5 anni. In totale, l’utente medio di Internet ora trascorre quasi 7 ore al giorno utilizzando Internet su tutti i dispositivi, equivalenti a più di 48 ore a settimana online: due giorni interi su una settimana di sette giorni. Supponendo che una persona media dorma tra le 7 e le 8 ore al giorno, ciò significa che ora trascorriamo mediamente circa il 42% della nostra vita da svegli online e che trascorriamo quasi lo stesso tempo a usare Internet che a dormire. LEGGI ANCHE: Come condurre una vita digitale sana dopo il lockdown da Covid-19 Il vero problema del rapporto col digitale di questa epoca non è solo nella quantità di tempo che dedichiamo al “virtuale”, ma soprattutto gli effetti che questo comporta. Come ricorda continuamente Alessio Carciofi nelle sue indagini sul digital wellbeing, possiamo permetterci il lusso di dimenticare ed esercitare la memoria perché la tecnologia lo fa per noi e viviamo l’era delle distrazioni digitali in piena dipendenza da notifiche. Siamo tutti più o meno consapevoli che la grande risorsa a cui aneliamo costantemente ormai è l’attenzione. Già diversi anni fa, secondo uno studio di Harvard, le persone trascorrevano il 46,9 per cento delle loro ore di veglia pensando a qualcosa di diverso da quello che stanno facendo, e questo “vagabondaggio mentale” dovuto all’uso tossico degli smartphone e della digitalità (vd. anche il binge watching) ci rende anche piuttosto infelici e distaccati dalla realtà. LEGGI ANCHE: 5 consigli (e un gioco) per scollegarsi un giorno intero dallo smartphone e ritrovare sé stessi  La causa non è solo nelle dinamiche di interazione che le notifiche digitali comportano, attivando meccanismi di rinforzo e sprigionamento di dopamina, in perfetto stile “slot machine”. La progettazione dei prodotti e del business digitale si focalizza sul restituire continuamente il piacere della notifica e il suo rinforzo, contemporaneamente, è consapevole che le persone sono immerse in una realtà complessa e piena di distrazioni, per cui è perennemente in atto una “guerra” per catturare l’attenzione delle persone. E i sistemi elaborati dalle aziende con le strategie di marketing evoluto attuale, pensate per elaborare prodotti che alimentano continuamente la nostra fame di gratificazione istantanea, si abbinano ad una cultura effimera della ricerca del successo e alla valorizzazione narcisistica dell’immagine, che inevitabilmente ci porta perennemente a sentirci a disagio e non “all’altezza” nella nostra vita quotidiana. La battaglia culturale che porta avanti Raffaele Gaito da qualche anno per innescare consapevolezza sul valore del controllo personale del tempo, sull’importanza dell’innamoramento verso il processo e la sperimentazione, è la chiave di volta. La sua ultima pubblicazione “L’arte della pazienza. Come essere perseverante in un mondo frenetico” è un saggio dai contenuti ormai irrinunciabili per cambiare prospettiva sulla res digitale, in particolare per quanto riguarda il paradigma della “Hustle Culture”, che letteralmente ci esorta a spingere forsennatamente nel lavoro e nella quotidianità, verso obiettivi spesso irrealizzabili e a stipare continuamente cose da fare in agende dense di appuntamenti. Raffaele spiega con i dati delle ricerche, con gli aneddoti storici di personaggi famosi e con il suo vissuto da imprenditore digitale, un metodo utile per il mondo del lavoro, del business e della vita personale, ma soprattutto sfata molti miti dietro l’immagine edulcorata del “successo” degli influencer, sul valore del fallimento (anche quello lento, mediterraneo, non necessariamente il “fail fast” di californiana memoria) e sulla pazienza, intesa anche come costanza e capacità di fare analisi critica e qualitativa. Un approccio diremmo “analogico”, nel suo pieno significato di leggere la realtà anche con le lenti qualitative e non solo quantitative sui risultati di breve termine del “pochi, maledetti e subito”; come forse ha trasmesso nella cultura aziendale la disciplina del Finance e del Controlling, spesso univocamente focalizzato sulle chiusure dei quarter e non sulla meta o sulle persone che lavorano a quegli obiettivi. Con il remote working, inoltre, si lavora di più e ci si affatica di più, e forse solo oggi, in condizioni estreme, stiamo scoprendo quanto la cultura frenetica e workaholic dei ruggenti decenni precedenti abbia reso disequilibrate le nostre vite professionali e personali. Senza distinzione di età.

    Il dialogo intergenerazionale per ripensare il digitale

    Parlare di digitalità allora, non significa più parlare di giovani come “smanettoni” o “social media dipendenti”, né di boomer come negazionisti tecnologici. L’esperienza del digitale è ormai così immersiva che non serve classificarla come questione per le nuove o le vecchie generazioni. Si tratta di identificare quali necessità, in campo tecnologico, possano essere scambiate considerando sia per i giovani, sia per gli adulti, la capacità di suscitare per entrambi un mindset dinamico che insegni a guardare le opportunità esistenti nelle sfide che pone l’innovazione tecnologica, ammettendo però le debolezze e le “in-capacità” del tutto umane, migliorando con i feedback continui e la focalizzazione sui processi anziché solo sui risultati. Ad esempio, le persone adulte hanno la tendenza ad interpretare i social network come fonti informative a cui forniscono una fiducia e una credibilità molto elevata (un po’ come “lo hanno detto in TV” di qualche tempo fa). Avendo imparato ad utilizzarli successivamente, non riescono a “governarli” nella loro totalità e il loro utilizzo diventa, quasi, un gioco forza tra piattaforma e utente. Le generazioni Y e Z, invece, riescono forse ad avere un quadro più completo del luogo digitale dove si trovano, percependo come fonte non il social network in generale, ma la pagina o l’utente che pubblica il contenuto, sebbene rimanga anche per loro la difficoltà a muoversi tra le numerosissime fonti e stimoli che provengono da un mondo social che si dirige verso la saturazione. Premettendo che è urgente e più che necessario che la formazione legata alle digital skill sia materia scolastica, se non addirittura una “patente”, che possa essere assegnata a grandi e piccoli per utilizzare consciamente gli strumenti e vivere in maniera consapevole la propria cittadinanza digitale, per generare l’incontro generazionale sul terreno della tecnologia, allora, potrebbe essere utile individuare quali contenuti possano essere scambiati nel reverse mentoring bidirezionale che giovani e adulti possono trasmettersi l’un l’altro:
    • il valore analogico del networking reale, la cybersecurity e il digital detox, ad esempio, potrebbero essere i driver che gli adulti sono in grado di trasmettere alle nuovissime generazioni
    • mentre la social netiquette, la conoscenza di tools e “tricks” digitali, e forse anche il coding, possono essere topic che i giovani possono insegnare ai senior, in azienda e a casa.
    Per tutti, senza distinzioni di età, l’esigenza di essere istruiti sul terreno delle fake news e del debunking affinché anche i valori culturali, civici e politici non vengano storpiati dalle dinamiche (ormai potremmo dire immorali), del clickbait e delle “filter bubbles”, che non permettono di certo un dialogo aperto e trasparente tra generazioni.