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  • Perché i brand non si schierano sul conflitto israelo-palestinese

    Al fascino delle catene occidentali sembra proprio difficile resistere

    9 Novembre 2023

    Gli attentati terroristici di Hamas verso i civili israeliani, perpetrati il 7 ottobre, e le violente risposte militari di Tel Aviv, hanno scatenato reazioni internazionali frammentate che hanno coinvolto ampie fette dell’opinione pubblica di tutto il mondo: dagli studenti ai giornalisti, dai politici alle celebrities.

    In tutto questo chiasso, solo i profili dei brand sono rimasti in un silenzio assordante, un atteggiamento ben diverso dalle nette prese di posizione su altri temi sociali come il cambiamento climatico, i diritti LGBT, il movimento Black Lives Matter e molti altro ancora.

    Con l’affermazione dei new media è più facile discutere e condividere opinioni e i brand sono spesso chiamati a partecipare al dibattito sulle “ingiustizie”.

    Cosa c’è di diverso stavolta?

    Attivismo sì, ma senza rischiare

    I brand sembrano aver trovato una propria comfort zone nelle battaglie sui diritti delle minoranze e su quelle di matrice ecologica, largamente accettate dall’opinione pubblica, mainstream sui principali media e “di moda” tra i consumatori, specialmente tra le generazioni più giovani.

    Tuttavia, le campagne di attivismo di marca, come abbiamo visto analizzando il caso Bud Light, possono portare a scivoloni di mercato clamorosi se ideate e costruite più sulla base delle sensibilità dei marketing manager che sui valori percepiti dai consumatori.

    Le multinazionali si sentono ancora piuttosto sicure a esporsi su tematiche sociali, confidando nella pacatezza di quel target che non si trova d’accordo, spesso restio a proteste chiassose ma avvezzo a far sentire il proprio peso quando si tratta di acquistare o meno il prodotto o servizio.

    L’attivismo sociale di marca sta quindi scemando anche a causa dei numerosi boicottaggi commerciali, che hanno visto bruciare miliardi di dollari di capitalizzazione.

    Il brand activism senza rischi esiste ancora?

    Sì, se si sposta l’attenzione al consumo e non alla produzione: le campagne di brand activism del futuro dovranno prima porsi la domanda se una determinata presa di posizione sociale possa o meno compromettere la fiducia dei propri consumatori o la possa invece incontrare e aumentare.

    Ci sono sicuramente mercati, categorie merceologiche e brand più avvezzi a sposare in maniera naturale le cause sociali, ma solo laddove si ha una profonda conoscenza del proprio target di consumatori si può azzardare una strategia che, in ogni caso, risulta un’esternalizzazione rischiosa e divisiva.

    Il brand activism finisce dove inizia la realtà

    24 Febbraio 2022: l’esercito russo invade l’Ucraina e i marchi mostrano la propria posizione in supporto del paese del presidente Zelenski senza troppi timori; il mondo occidentale – nonostante numerosi distinguo – sembra unito e quel supporto gode di ampia popolarità.

    I consumatori vedono apparire le bandiere gialle e blu su negozi e siti web e, un certo numero di aziende, lanciano anche campagne di solidarietà, come Airbnb, che offre alloggi gratuiti ai rifugiati ucraini.

    La guerra in Medio Oriente cambia le carte in tavola: se tutte le tragedie sono difficili da comunicare a affrontare, il conflitto tra Gaza e Israele ha un tale grado di complessità storica e geopolitica che i marchi non sanno bene da dove iniziare ad affrontare l’argomento.

    Se è vero che oltre 500 società di investimento finanziario hanno firmato una lettera a sostegno di Israele è altrettanto vero che i brand internazionali su questo tema tacciono, almeno in Occidente, anche se molti attivisti arabi invocano un boicottaggio delle aziende americane, israeliane ed europee a causa di un loro presunto appoggio a Tel Aviv che però, di fatto, non è mai stato esplicitato.

    Il brand activism lascia il posto al silenzio ed è una necessità più che una strategia: il tema della guerra tra Israele e Gaza si colloca in una sfera difficilmente intellegibile per la gran parte dei marketing manager delle aziende, più a loro agio nel comprendere e comunicare i temi dei diritti civili e dell’ecologia.

    Un altro motivo di questo silenzio ha a che fare con la difficoltà di affrontare questioni che riguardano la base della piramide di Maslow: vita/morte e sicurezza, innanzitutto.

    I temi tipici del brand activism, come l’inclusione sociale e la diversità, il cambiamento climatico e la sostenibilità, permettono infatti una semplificazione del messaggio e una facilità a comunicarlo che il conflitto israelo-palestinese non permette, tantomeno nel suo ultimo e drammatico capitolo.

    Un disincentivo netto per i brand è il ruolo che le immagini e i video stanno giocando all’interno di questo conflitto: in alcuni gruppi Telegram e in molti account social, specialmente su X, dove è garantita una maggior libertà di espressione, circolano contenuti disturbanti che non temono confronti con quelli che l’ISIS diffondeva in occasione delle decapitazioni degli “infedeli” e certamente peggio della mole – piuttosto modesta a dire il vero – di materiale multimediale che ci è arrivato nel tempo dall’Ucraina, dove non è ancora chiaro neanche un reale conto delle vittime da entrambe le parti.

    L’utilità di mostrare la violenza per una causa di propaganda politica, nel caso di Hamas, o di comunicazione politica, nel caso di Israele è utile alla reciproca causa?

    Sicuramente per un brand è inutile (e potenzialmente dannoso) addentrarsi in simili questioni.

    Due marchi coinvolti (loro malgrado): McDonald’s e Starbucks

    Tra i marchi coinvolti, loro malgrado, nella comunicazione del conflitto, ci sono McDonald’s e Starbucks, anche se in realtà si tratta di iniziative territoriali dei franchisee o dei lavoratori e non di brand activism vera e propria.

    Quando Israele ha iniziato gli attacchi di rappresaglia contro Hamas a Gaza, McDonald’s Israele ha annunciato che avrebbe offerto migliaia di pasti gratuiti al personale delle Forze di Difesa Israeliane (IDF).

    Come risposta, McDonald’s Turchia e Oman ha esplicitato l’intenzione di donare ampie somme alla Palestina. McDonald’s Corp. ha rifiutato di commentare questa diatriba interna limitandosi – secondo alcune fonti – a prendere atto che non è insolito per gli affiliati impegnarsi con le comunità locali quando ne hanno bisogno.

    Un processo che, tra l’altro, ci fa tornare alle origini dell’idea stessa di “Corporate Social Responsability“, che nasce negli anni cinquanta proprio come azione di mecenatismo e filantropia verso le comunità locali del territorio.

    Per quanto riguarda Starbucks la vicenda ha i contorni del tragicomico: due giorni dopo gli attentati di Hamas il sindacato dei lavoratori “Starbucks Workers United” condivide un messaggio su X (prontamente rimosso), che recita: “Solidarietà con la Palestina!”. Starbucks ha fatto causa per violazione del marchio, chiedendo al sindacato di astenersi dall’utilizzare il nome “Starbucks Workers United” e il logo verde circolare, troppo simile al logo corporate.

    I sindacalisti, per tutta risposta, hanno cambiato l’immagine profilo di X, sostituendo il bicchiere, impugnato minacciosamente, con una più innocente decorazione natalizia.

    Le rivendicazioni dei diritti di immagine della catena di caffetterie americana più famosa al mondo entra in crisi non solo con il sindacato ma anche con la “presenza del marchio” in Cisgiordania: a Betlemme, di fronte alla Basilica della Natività, è presente uno “Starb B Coffee” che vende perfino le classiche tazze souvenir  ( https://maps.app.goo.gl/2cVgboARE3chENJ28 ) mentre a Ramallah un’insegna “Star & Bucks Caffè” campeggia in una delle piazze della protesta palestinese ed è presente anche in una aggiornatissima Google Map, con tanto di foto di frullati e appetitosi hamburger.

    https://maps.app.goo.gl/FJZZWnJ9C4acUTAE7

    Tazza starbucks - brand conflitto e brand activism
    Tazza souvenir “Starbucks Bethlehem” – Foto di David Mazzerelli

    Insomma, va bene il boicottaggio, ma al fascino delle catene occidentali sembra proprio difficile resistere.

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