La pesca di Esselunga e le polemiche: è il colpo finale al brand activism?
Un brand non dovrebbe avere un approccio hegeliano al business: il suo fine non è il bene universale, non si tratta di stato etico ma di un supermercato
27 Settembre 2023
Lo spot di Esselunga è perfetto per il suo target di consumatori, forse è per questo che ha destato un così ampio dibattito. Come abbiamo avuto modo di analizzare in un recente editoriale “Quando il mercato punisce il brand activism: le echo chamber e il caso Bud Light“, i prodotti e i servizi che vengono comunicati a seconda delle sensibilità dei marketing manager sono destinati a rivelarsi dei flop commerciali. A meno che le suddette sensibilità non coincidano anche con quelle dei propri consumatori, cosa che per alcuni brand può certamente avvenire. Per tutti gli altri, vale la vecchia regola del marketing: agire con buon senso. Il mercato è ampio e c’è spazio per ogni idea, gusto e tendenza. Inseguire le mode del momento – che in quanto mode, appunto, sono ineluttabilmente transitorie – al massimo può portare un beneficio momentaneo, ma solo nel caso in cui il nostro posizionamento ideologico coincida con quello della maggioranza dei propri consumatori. In tutti gli altri casi si rischia di andare incontro a un muro. Ho sentito dire spesso, anche da “marketing guru” affermati, che una marca debba perseguire i suoi “ideali” di brand activism anche se questi dovessero scontrarsi con le idee maggioritarie del proprio pubblico. Ma è un grave errore. Un brand non dovrebbe avere un approccio hegeliano al business: il suo fine non è il bene universale, non si tratta di stato etico ma di un supermercato. Il brand activism funziona solo quando propone dei valori coincidono con quelli della maggioranza dei consumatori e, se questi valori, sono sedimentati nell’immagine di marca e non sono un “washing” momentaneo per rincorrere i trend topic in cima all’agenza mediatica e politica.