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  • I nomadi digitali continuano a crescere: dati, luci e ombre

    10 Novembre 2023

    Prima dell’arrivo del COVID-19 il nomadismo digitale era pressoché sconosciuto o, comunque, rappresentava uno stile di vita idealizzato che solo pochi seguivano. Ora, nella fase post-COVID, il nomadismo digitale è diventato una tendenza in rapida crescita, ampiamente diffusa e ambita da molti.

    Nel mezzo, a tracciare una linea tra il prima e il dopo, il periodo del Covid che ha sdoganato il lavoro da remoto in quasi ogni ambito lavorativo.

    Oggi sta vivendo la sua più grande epoca d’oro: riaperte le frontiere, consolidata l’idea che la produttività è possibile anche con il lavoro da remoto, e con la spinta dei venti dei cambiamenti culturali in atto nella società e nel mondo del lavoro, più persone si considerano nomadi digitali.

    Ma cosa succede quando un fenomeno di nicchia esplode e si trasforma in uno di massa, spostando milioni di persone verso le stesse destinazioni e con le stesse motivazioni?

    Succede che emergono tutte le luci e le ombre che prima venivano smorzate dai numeri ridotti e dalle difficoltà di accesso. L’idealismo lascia il posto alla realtà, e i nodi vengono al pettine.

    Così i media (e i locali delle destinazioni più “digital nomads friendly”), che prima inneggiavano ai benefici di questo stile di vita in nome della sua originalità, si scagliano contro i nomadi accusandoli di gentrificazione, orientalismo, spinta alla precarietà strutturale, insostenibilità sociale ed ecologica, e chi più ne ha più ne metta.

    nomadi digitali in italia

    Insomma il nomadismo digitale rischia di passare da un estremo all’altro e di venir identificato come uno dei grandi mali del nostro tempo. Ma dove sta la verità?

    Per capirlo bisogna guardare ai numeri e al cambiamento strutturale che ha portato il Covid.

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    Le statistiche sui nomadi digitali oggi

    Secondo Statista, dei circa 35 milioni di nomadi digitali che si definiscono tali nel 2023, quasi la metà viene dagli USA. Seguono UK con il 7%, Russia con 5%, Germania con 4% e così via (solo l’1% dall’Italia). La maggior parte delle statistiche riguardano ovviamente gli Stati Uniti, ma ci permettono ugualmente di tracciare degli utili confronti.

    Quello che è interessante è vedere la crescita del fenomeno: secondo una fonte, il numero di nomadi digitali americani è aumentato costantemente negli ultimi tre anni e ha raggiunto i 16,9 milioni a metà del 2022, con una crescita di più del 130% rispetto al dato del 2019.

    Da un sondaggio globale condotto con i CIO sui trend del lavoro da remoto tra il 2020 e il 2022, circa il 15-16% ha dichiarato che la forza lavoro delle loro aziende lavorava in remoto già prima della pandemia mentre, alla fine del 2021, il 30% degli intervistati prevedeva che la propria azienda avrebbe lavorato in remoto in modo permanente. Entro il 2022, il 36% degli intervistati prevedeva di lavorare permanentemente in un modello ibrido.

    NOMADI DIGITALI - Statistic: Future trends in remote work worldwide from 2020 to 2022 | Statista

    Nel 2021, il 29% delle aziende intervistate in un sondaggio globale dichiaravano l’impegno a lavorare da remoto ed evolvere le operazioni per supportare una forza lavoro ibrida in futuro. Anche se la maggior parte di chi si considera nomade digitale è un libero professionista, questo cambio di paradigma ha aperto le porte del mondo a una massa di persone prima insospettabile fatta di dipendenti da tutti i Paesi.

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    I rischi e i benefici del nuovo nomadismo digitale

    E cosa accomuna tutti questi nomadi? La voglia (e la possibilità) di spostarsi in luoghi in cui la qualità della vita sia alta.

    Con tutte le conseguenze del caso, perché la maggior parte di loro utilizza le stesse metriche di valutazione.

    Da un’analisi di Statista, nel 2022 il costo della vita e una connessione internet veloce e accessibile sono stati i fattori principali nella scelta di un luogo per i nomadi digitali di tutto il mondo.

    Ecco perché si sono formati i cosiddetti “digital nomad hubs” spesso in Paesi del Sud del mondo, dal Messico all’Indonesia.

    Se prima del Covid però i numeri di questi professionisti in movimento erano piuttosto contenuti, come si vede dalle statistiche oggi si tratta quasi di una vera e propria migrazione, le cui conseguenze hanno anche molte ombre.

    Gentrificazione e nomadi forzati

    In molti di questi Paesi, da Città del Messico a Lisbona, sono apparsi cartelli a firma delle associazioni di cittadini locali che insultano i nuovi residenti temporanei o lavoratori da remoto e intimano loro di andarsene. Hanno fatto salire i prezzi di affitti e attività ricreative alle stelle, dicono, trasformando i quartieri più belli delle città in enclavi di espatriati, spingendo i proprietari di case a sostituire gli affittuari a lungo termine con viaggiatori disposti a pagare di più su Airbnb.

    Numeri come i 15 mila nomadi digitali a Lisbona nel 2022 registrati sul sito Nomad List sono in grado di mettere in crisi le infrastrutture dell’area e costringere i residenti a spostarsi fuori dal centro, diventato inaccessibile, e far emergere la triste equivalenza di “Un nomade digitale = molti nomadi forzati”, come si leggeva su un volantino locale.

    Il problema è reale e viene alimentato dai governi, che fanno a gara per attirare questo nuovo target ma spesso pretendendo di far entrare solo quelli con il reddito maggiore, sproporzionato rispetto a quello della popolazione locale.

    Ad esempio per avere questo tipo di visto in Thailandia bisogna dimostrare di percepire uno stipendio di almeno 6.000$ al mese, possibilità economiche quasi illimitate a confronto di quelle dei locali.

    Ma è forse un po’ troppo facile accusare i nomadi digitali di questo, dimenticandoci che la stessa dinamica l’hanno causata i lavoratori degli uffici a loro modo. Indubbiamente il lavoro da remoto rischia di rendere inabitabili certe nuove aree del mondo, ma la stessa cosa è successa con il lavoro in ufficio in città come Milano, Londra o Tokyo. Il lavoro stanziale ha reso molte città invivibili, con servizi di base inaccessibili per la sovrappopolazione, i prezzi degli affitti fuori controllo, eccetera. Se vogliamo aggiungerci anche lo spopolamento dei borghi e delle campagne “forzato” dalle migrazioni di giovani verso le città per lavorarvi, il quadro non è molto migliore.

    Anzi, paradossalmente proprio il nomadismo digitale, sebbene porti tanti interrogativi e problemi da risolvere, può offrire soluzioni efficaci ad altri.

    Sostenibilità e ripopolamento

    È un antidoto contro lo spopolamento dei tanti borghi che vanno a scomparire, ad esempio.

    Secondo l’ultimo report dello stato del nomadismo digitale dell’Associazione Italiana Nomadi Digitali, l’Italia risulta una destinazione attraente agli occhi dei remote worker con il 43% degli intervistati che sceglierebbe il Sud Italia e le Isole come destinazione privilegiata. Il 93% degli intervistati sarebbe interessato a soggiornare in piccoli comuni e borghi dei territori marginali e aree interne del nostro Paese, considerati luoghi dove la qualità della vita è migliore rispetto ai grandi centri urbani.

    Il 42% è interessato a soggiornare in Italia per periodi che variano da 1 a 3 mesi, il 25% da 3 a 6 mesi, mentre il 20% sarebbe disposto a fermarsi anche per più tempo: permanenze medio-lunghe quindi, che andrebbero a compensare i problemi socio-economici della stagionalità nel turismo classico tra l’altro.

    La crescita del nomadismo digitale andrebbe anche a ridurre l’inquinamento eccessivo e gli altri effetti negativi del pendolarismo. In alcune analisi pre-Covid si era ipotizzato che, se tutti coloro con un lavoro “remotizzabile” avessero lavorato da casa almeno per metà del tempo, si sarebbero risparmiate fino a 54 milioni di tonnellate di gas serra dovute ai trasporti per gli spostamenti casa-lavoro. Blocchi del traffico spontanei da decine di milioni di auto.

    E allora dove tracciamo la linea?

    Come facciamo a dire se il nomadismo digitale è positivo o negativo per le comunità ospitanti?

    Non è possibile, almeno non a priori.

    Così come esiste in modo conclamato una netta differenza tra il turismo indiscriminato, negativo, e il turismo consapevole e sostenibile con i suoi effetti positivi, così deve esserci la stessa distinzione all’interno del nomadismo digitale.

    Per riuscirci però bisogna responsabilizzare ciascun lavoratore da remoto, e lavorare insieme ai governi per creare un modello di nomadismo digitale che sia vantaggioso sia per loro che per le comunità che li ospitano.

    Ma serve anche un contributo da parte dei media che, soprattutto durante e dopo la pandemia ma anche prima, hanno dipinto i nomadi digitali in un modo prettamente esotico, esaltando aspetti quali il risparmio economico, la bella vita, la community internazionale, e il guacamole in spiaggia mentre si lavora. Non è questo, non può essere solo questo.

    Serve un’immagine più realistica e consapevole dei rischi, oltre che dei benefici. Sia a livello macro, sociale, che a livello personale.

    nomadi digitali

    Una lotta tra poveri?

    Perché c’è poi un secondo punto di vista, un’altra critica feroce al nomadismo digitale che non riguarda tanto il suo impatto esterno, ma le sue motivazioni interne. Che dipinge il nomadismo digitale come un’idolatria del precariato, per quanto inconsapevole.

    Una “lotta fra poveri”, come è stata definita da alcuni giornalisti, o fra “poveri dei Paesi ricchi” e “poveri dei Paesi poveri”.

    La teoria di queste critiche è che non sarebbero la voglia di libertà e la ricerca di un modo di vivere più sostenibile la vera spinta a partire, ma la fuga da una precarietà crescente e dai bassi salari.

    Quei lavori intellettuali o creativi che più si prestano alla scelta del nomadismo digitale, sono gli stessi che più hanno sofferto della precarietà, della riduzione salariale, dell’impoverimento. Il prestigio sociale che vi è associato da sempre, e che non è diminuito nel tempo, non è più correlato a un corrispondente prestigio economico.

    E così, in quest’ottica, sarebbe il precariato che spinge il nomade digitale a diventare tale, per fuggire dai costi della vita a casa e rifugiarsi in Paesi in cui il suo lavoro ancora può permettere uno stile di vita dignitoso, altrettanto precario ma “verniciato” con una mano di retorica sulla ricerca della felicità e della libertà.

    Ma anche questa argomentazione è monca, e guarda al nomadismo digitale solo da un punto di vista invece che dalla moltitudine necessaria. Se è vero che alcuni digital nomads guadagnano meno di 25.000$ l’anno, situazione certo abbastanza precaria, in realtà dai dati emerge che sono solo il 6% del panorama.

    La stessa precarietà (economica e di prospettive) la subisce la maggior parte dei lavoratori “tradizionali”, anche dipendenti, con la differenza che i nomadi digitali hanno la flessibilità di scegliere alcune delle variabili, come i propri clienti, orari e o luoghi di lavoro, il che può migliorare la qualità della vita.

    In generale il nomadismo digitale può offrire un equilibrio tra lavoro e vita migliore: la possibilità di lavorare da luoghi diversi può aumentare la creatività, la produttività e il benessere generale, ma permettere anche maggiore integrazione tra differenti comunità – se incoraggiata adeguatamente.

    Sta ai nomadi digitali stessi essere “il cambiamento che vogliono vedere nel mondo”, per citare Gandhi, ai governi ideare politiche di ingresso eque che non discriminino in base al reddito, creando scompensi eccessivi con la popolazione locale, e infine ai media tracciare visioni più equilibrate possibile.

    Visioni che non cadano né in un estremo, quello dell’esaltazione dell’orientalismo e di uno stile di vita idealizzato, né nell’altro, ovvero la critica feroce ma miope al nomadismo digitale come nuovo male del nostro mondo.

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